Una sfida al mercato editoriale. "Yellowface" di Rebecca F. Kuang
C’è un romanzo di cui non si è smesso di parlare per un paio di mesi quest’estate ed è Yellowface di Rebecca F. Kuang. Autrice di grande fama sia negli Stati Uniti che in Italia, Kuang è esplosa con il genere fantasy che ha deciso di abbandonare dopo quattro romanzi proprio con la pubblicazione di Yellowface. Motivo questo, forse, per cui il romanzo ha una serie di elementi che non funzionano del tutto.
Il libro in sé ha una grande potenzialità, soprattutto per l’entusiasmo che è stato costruito per l’uscita, alimentato da una grafica di copertina accattivante: il giallo che domina davanti, in quarta e anche sul taglio delle pagine, due occhi orientali che sembrano ignorare volutamente lo sguardo del lettore e, per finire, la firma dell’autrice protagonista del romanzo “Juniper Song” di nuovo sul taglio giallo del libro. Insomma, la ricetta commerciale perfetta per spingere un romanzo. E non sarebbe nemmeno sbagliato, visto i successi precedenti di Kuang. Il problema, tuttavia, sussiste perché il romanzo funziona per certi versi e per molti altri no. O meglio, non regge la spinta che gli è stata data dal mercato.
La storia che viene raccontata è di taglio attuale e sicuramente conosciuta. È la trama del manoscritto rubato e ripubblicato, rivista in chiave contemporanea. June Hayward, giovane scrittrice con grosse difficoltà a farsi pubblicare, assiste alla morte dell’amica scrittrice di grande successo Athena Liu. Decide di rubarle l’ultimo manoscritto e di editarlo per la pubblicazione. June si firma con lo pseudonimo dal sentore asiatico Juniper Song e pubblica la storia del trauma bellico dei cinesi durante la Prima Guerra Mondiale. È un successo. Il segreto dietro al romanzo, tuttavia, inizia a rendere problematica la vita di June al punto che la giovane dovrà chiedersi fino a che punto è disposta a spingersi pur di tenere la verità per sé.
La scia di romanzi americani che raccontano la parte marcia della publishing industry è ricca, soprattutto negli Stati Uniti. Yellowface ci si inserisce senza troppi problemi, arricchendo il genere con discorsi sulla razza e sul privilegio che risuonano in molti altri romanzi attuali. Un miscuglio a tratti ben riuscito e che sin dall’inizio promette molto bene. Il posto delle minoranze nel mondo dell’editoria viene dissacrato e ribaltato, così che i ruoli razziali nella società siano messi a nudo e mostrati anche nell’ipocrisia che spesso li contorna. Il ruolo che Kuang dà a Twitter nel romanzo esemplifica alla perfezione il processo per cui, purtroppo, i discorsi sull’appropriazione e il privilegio culturale vengono resi vuoti e superficiali. June è personaggio centrale: creato ad hoc per essere detestabile e allo stesso tempo il fulcro di dubbi che, nel profondo, abbiamo tutti, e il suo ruolo mette in dubbio anche le premesse migliori sui discorsi più seri riguardo la razza degli ultimi vent’anni.
Purtroppo, però, la scarsa profondità che emerge dai nuclei tematici del romanzo colpisce anche la sua struttura e costruzione. Yellowface racconta una storia potenzialmente esplosiva, ma il detonatore non viene mai premuto del tutto. I dialoghi tra i personaggi risultano svuotati di profondità, rendendo spesso anche i personaggi stessi delle macchiette all’interno del mondo editoriale.
La struttura con cui la storia travagliata di June viene raccontata risulta un po’ ripetitiva: June pubblica il romanzo rubato ad Athena e la notizia rischia di trapelare, ma la situazione si risolve per il meglio. Stesso schema per il secondo romanzo, che la porta di nuovo sulla cresta dell’onda e questo non fa che peggiorare la sua ansia e la sua situazione. Il problema non è tanto nella ripetizione, quanto il fatto che questo schema venga gonfiato fino alla fine per poi svuotarsi con una risoluzione che, a mio avviso, risulta un po’ banale. Qual è l’ultimo riscatto possibile di June e la conclusione perfetta per un romanzo che parla di libri? Ovviamente quello di far scrivere alla scrittrice un romanzo molto simile a quello che noi lettori stiamo leggendo.
Infine, una nota sui generi con cui Yellowface gioca in continuazione. Il romanzo ruota sul giallo a carte scoperte, a tratti sull’investigazione ossessiva, sul noir e, purtroppo, anche sul fantasy. Non mancano, infatti, delle incursioni sovrannaturali che rimangono isolate. Il problema non è nemmeno che non vengono spiegate, perché in un romanzo che basa la sua struttura su ciò che non è possibile spiegare funzionerebbero alla perfezione. La criticità si presenta nel momento in cui Yellowface non risponde a queste caratteristiche e quindi, il sovrannaturale macchia solamente la pagina di un dettaglio non pertinente.
Yellowface non è da buttare, anzi. È un’ottima prova per il mercato americano di come, forse, si possa iniziare a smontare la patina di superficialità che copre determinati discorsi sulla razza e sul privilegio. Bisogna riconoscere a Kuang un’audacia non da tutti, soprattutto da parte di una scrittrice donna, giovane e di origini cinesi, capace di guardare con occhi distanti un mondo che fa sempre più difficoltà a confrontarsi con la complessità.